Di diamanti sintetici si sente parlare sempre più spesso e sotto vari punti di vista: quello del valore intrinseco, quello della sostenibilità ambientale, quello dell'etica e quello dei costi.
L'argomento è complesso e dibattuto, spesso senza avere davvero gli strumenti per comprenderne la portata, il che rende piuttosto difficile farsi un'idea e dare una risposta all'interrogativo che sorge in chiunque si ponga davanti al tema dei diamanti sintetici: sono da considerare al pari dei diamanti naturali oppure no? E ancora, meglio acquistare un diamante naturale o uno sintetico?
Per provare a rispondere a queste domande, cerchiamo prima di fare chiarezza e di capire la storia, le proprietà e come vengono identificati i diamanti sintetici, traendo spunto da quanto pubblicato dal GIA - Gemological Institute of America sull'argomento.
come si formano i diamanti
I diamanti naturali si formano a circa 240km di profondità sotto la crosta terrestre dove il carbonio compresso, sottoposto ad alta temperatura e a una fortissima pressione, si cristallizza. Già dalla fine del 1700 era noto agli scienziati che i diamanti erano formati da puro carbonio e fino da allora si era iniziato a cercare un metodo per ricreare in laboratorio la stesse condizioni di pressione e temperatura per sintetizzarli, che in natura sono comprese fra i 1000 e i 1400 gradi di temperatura e fra le 50 mila e le 80 mila atmosfere di pressione.
Nessuno però ha avuto successo fino al 1956 quando negli Stati Uniti la General Electric ottenne il primo diamante prodotto in laboratorio attraverso il metodo HTHP high temperature high pressure, un metodo che prevedeva di sottoporre un piccolo cristallo di diamante a una temperatura e una pressione pari a quella prevista dalla formazione naturale; questa metodologia venne implementata con l'aggiunta di materiale attentamente selezionato al fine di accellerare la cristallizzazione e ottenere così il risultato desiderato. A oggi sono milioni i carati di diamanti prodotti utilizzando la metodologia HTHP, e si tratta per la maggior parte di una produzione destinata a un uso industriale.
la svolta del CVD
Due anni prima di General Electric, nel 1954, venne messo a punto un metodo completamente diverso per sintetizzare diamanti, il cosidetto CVD Chemical Vapor Deposition che funziona a temperature e pressioni nettamente inferiori rispetto al HTHP. Attraverso questo processo, la formazione dei diamanti avviene sottoponendo un piccolo diamante sintetico, di solito ottenuto con il metodo HTHP, a un mix di idrocarburi (comunemente si usa il metano) e di idrogeno riscaldato fra i 900 e i 1200 gradi in una camera sottovuoto e con una pressione molto bassa; normalmente in condizioni di questo tipo il mix di idrocarburi e idrogeno produrrebbe grafite o altre formazioni diverse dal diamante, ma nelle particolari condizioni che si creano nella camera in cui avviene il CVD, parte dell'idrogeno si converte in idrogeno atomico che è in grado di favorire maggiormente la formazione del diamante; quest'ultimo processo avviene perché grafite e altri materiali in contatto con l'idrogeno atomico, evaporano; l'idrogeno atomico inoltre, a contatto a sua volta con il metano, genera una formazione di carbonio-idrogeno altamente reattiva; quando questa formazione si decompone, si libera dell'idrogeno rilasciando la parte in carbonio, ovvero il diamante.
Le prime camere di produzione con il metodo CVD erano in grado di sintetizzare un solo diamante alla volta, ma oggi, al netto della segretezza delle industrie di settore, sembra acclarato che alcuni sistemi di produzione siano in grado di produrre fino a 50 esemplari alla volta.
I diamanti sintetici posso essere lucidati e tagliati nella stessa maniera in cui lo sono quelli naturali, e di fatto la loro proprietà sono le stesse. Ma approfondiremo questi aspetti nella seconda parte.